Soffitto di cristallo

Soffitto di cristallo e quote rosa: l’Italia sfida le disparità di genere – con successo?

La parità di genere non è più solo un sussurro nelle stanze del potere o un tema per addetti ai lavori. È un’onda crescente di consapevolezza sociale e politica, alimentata con forza dalle nuove generazioni. Ma oltre all’imperativo etico, c’è un costo economico tangibile che le società pagano per la disuguaglianza: si stima che senza gli ostacoli che frenano l’imprenditoria femminile, il Prodotto Interno Lordo mondiale potrebbe beneficiare di un incremento del 2%. Eppure, la strada è ancora in salita. Basti pensare che in Italia, nel 2022, solo un manager su cinque era una donna, un chiaro segno del persistente e tristemente noto soffitto di cristallo.

Lo specchio delle percezioni: cosa pensano i cittadini del G7

Il barometro del Women’s Forum, che ha coinvolto 3.500 cittadini nei Paesi del G7, ci offre una fotografia vivida delle percezioni sul divario di genere. Se la quasi totalità dei rispondenti (il 90%) invoca un trattamento paritario tra uomini e donne, solo il 65% riconosce una diffusione capillare delle disuguaglianze nel mondo. Gli stereotipi, poi, sono duri a morire: il 29% crede che gli uomini siano naturalmente più ambiziosi, e un preoccupante 46% (seppur in lieve calo) ritiene che non si possa avere tutto e che una buona madre debba accettare di sacrificare parzialmente la propria carriera. Addirittura, il 34% degli uomini intervistati (contro il 22% delle donne) è convinto che per la felicità femminile il ruolo di madre conti più della carriera.

Nonostante ciò, due persone su tre (67%) ammettono che le disparità di genere in ambito professionale sono un problema, e il 62% crede che una donna, a parità di competenze, abbia meno opportunità di successo di un uomo. Le interruzioni di carriera per motivi di cura familiare ne sono una prova lampante: il 41% delle donne ha lavorato part-time per almeno un anno per assistere qualcuno (contro il 24% degli uomini), e il 38% ha smesso di lavorare per lo stesso motivo (uomini al 24%). Le conseguenze? Il 38% delle donne non ha cercato nuove responsabilità e un doloroso 18% ha addirittura rifiutato una promozione.

In questo quadro, l’Italia si distingue: purtroppo, due italiani su tre riconoscono disuguaglianze diffuse (il dato più alto della rilevazione), ma allo stesso tempo, il 43% vede nel perseguimento della parità di genere una “priorità assoluta”, anche qui il dato più elevato del panel G7. Una consapevolezza acuta che, si spera, possa tradursi in azione.

Rompere il soffitto: l’Introduzione delle quote di genere

Di fronte a un soffitto di cristallo così resistente, come si può accelerare il cambiamento? Negli ultimi vent’anni, le quote di genere sono emerse come uno strumento legislativo potenzialmente potente. La Norvegia ha aperto la strada nel 2005, imponendo quote minime di genere nei consigli di amministrazione, seguita da altre nazioni europee come Italia, Francia e Germania. Non sono mancate, all’epoca, le perplessità: si troveranno abbastanza donne qualificate? Le performance aziendali ne risentiranno?

L’esperimento italiano: la legge Golfo-Mosca sotto la lente

L’Italia, con una partecipazione femminile alla forza lavoro storicamente bassa (attorno al 48% nei dieci anni precedenti la riforma, il valore più basso in Europa dopo Malta), ha rappresentato un caso di studio particolarmente interessante con l’introduzione nel 2011 della legge Golfo-Mosca. Questa normativa ha imposto un equilibrio di genere nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali delle società quotate, pena lo scioglimento degli organi. Le quote sono state introdotte gradualmente: un quinto (20%) per la prima elezione post-agosto 2012, per poi salire a un terzo per le successive due, e ulteriormente estese nel 2019 fino al 40% per altre tre elezioni.

I risultati: oltre le aspettative

Uno studio approfondito, che ha analizzato i dati CONSOB relativi a 4.732 membri di CdA e sindaci di 243 società quotate italiane tra il 2007 e il 2014, ha portato a conclusioni significative:

  • Più donne ai vertici: la quota di donne è aumentata tra l’11% e il 16%, spesso superando il minimo legale.
  • Board più qualificati: si è registrato un aumento generale del numero di consiglieri laureati tra il 2,5% e il 4% (particolarmente rilevante, considerando che la media pre-riforma era solo del 7,5%). Sono aumentati anche i laureati all’estero, i consiglieri con titoli post-laurea e si è osservata una riduzione dell’età media.
  • Smentite le preoccupazioni: il timore di nominare donne legate alla famiglia del proprietario ma prive di qualifiche adeguate è stato smentito dai fatti.
  • Performance aziendali e stabilità del mercato: Non è emersa alcuna significativa relazione negativa tra la percentuale di donne al vertice e le classiche misure di performance aziendale (numero di dipendenti, attività, profitti). Anzi, si è osservata una riduzione della volatilità del titolo e un effetto positivo sui rendimenti delle azioni nel momento delle elezioni dei nuovi consigli conformi alla legge.

Conclusioni: un cambiamento culturale oltre i numeri

L’esperienza italiana con la legge Golfo-Mosca suggerisce che le quote di genere, quando applicate, non solo aumentano la presenza femminile ai vertici, ma sembrano innescare un miglioramento generale nel processo di selezione dei membri dei consigli di amministrazione, rendendoli più giovani e con una formazione superiore. La presenza femminile ai vertici non ha avuto effetti negativi di breve termine sulla performance aziendale, ma ha anzi contribuito a ridurre la variabilità dei prezzi delle azioni, un fattore cruciale per le società quotate.

Certo, le quote da sole non possono sradicare stereotipi culturali radicati o risolvere la complessa questione del lavoro di cura non retribuito, che pesa ancora in modo sproporzionato sulle donne (il 75% nell’UE). Tuttavia, l’esempio italiano dimostra che possono essere uno strumento legislativo efficace per iniziare a scardinare meccanismi consolidati, promuovendo non solo una maggiore equità, ma anche un potenziale miglioramento della governance e della stabilità delle imprese. La strada verso la piena parità è ancora lunga, ma ogni passo, supportato da dati concreti, ci avvicina all’obiettivo.